Un giorno a Kara Tepe

Uomini, donne e bambini scappati dai luoghi nativi con la speranza di arrivare in quell’Europa che blinda le sue porte. Così Mitilene, e l’isola di Lesbo tutta, diventano la linea invalicabile tra il benessere capitalista occidentale e il girone degli emarginati, figli dell’ingordigia dei potenti sostenuti dai governi cosiddetti democratici, che giocano a scacchi con il destino di milioni di abitanti.

File geometriche di bianchi container disegnano l’orizzonte a circa 2,5 km a nord est di Mitilene. E’ il campo profughi Kara Tepe, gestito dal Comune della città in collaborazione con UNHCR e altre ONG come: IRC, Medici Senza Frontiere, SOS Villages, Because We Carry. Ed è proprio qui che, a maggio del 2016, è iniziata la nostra esperienza di volontariato.

Il campo profughi Kara Tepe

Compito principale del campo era, ed è tutt’ora, l’accoglienza di nuclei familiari vulnerabili.

La maggior parte delle persone ospitate, 1.000 circa, (1.324 oggi) sono di nazionalità irachena, afghana e siriana provenienti da contesti di conflitto e post conflitto, con tutta l’insicurezza e la precarietà che la guerra provoca.

Humanitarian Support Agency è l’organizzazione che raggruppa volontari da tutte le parti del mondo, per offrire un’esperienza educativa nel campo, a stretto contatto con i beneficiari.

Noi siamo stati operatori di questa associazione, che pianificava e gestiva la distribuzione di pasti e vestiti.

24 ore a Kara Tepe

Le giornate si svolgevano in questo modo: ogni mattina arrivavano alcuni furgoni della ONG Oxfam, che portavano il cibo destinato agli abitanti. Si cominciava con brioche e succo di frutta, poi verso mezzogiorno il pranzo, che consisteva in un solo piatto composto per la maggior parte delle volte da riso e cereali. Infine, alle 18, la cena: anch’essa un piatto unico, abbastanza scarso, accompagnato da un frutto e pane.

Prima della distribuzione, ai volontari, venivano assegnate a coppie determinate zone del campo. Una volta ottenuto il cibo, conservato dentro grossi recipienti, veniva portato nei container ad ogni famiglia.

Oltre a questo servizio era a disposizione di tutti un “Tea point distribution” dove una signora, anch’ella siriana col marito deceduto in guerra, serviva a chiunque volesse tè o caffè. Era uno dei pochi luoghi di incontro e socialità.

Da un’altra parte del campo si trovava invece il banco dei vestiti, messo in piedi grazie alle donazioni provenienti dall’estero e da quelle dei cittadini greci.

In determinati giorni in questo “negozio”, a turno, i volontari distribuivano vestiario per le famiglie che ne avevano bisogno, in particolare per i bambini di ogni età.

Lezioni di inglese, ma anche pittura, foto e giochi: nel campo si potevano svolgere molte attività in spazi allestiti dalle altre organizzazioni. Purtroppo però la partecipazione era limitata, in quanto l’unico pensiero delle persone era quello di andarsene, anche se il processo per il ricollocamento e la tutela legale richiedono molto tempo.

A differenza dell’hotspot di Moria, qui l’attesa è vissuta leggermente meglio, nonostante i problemi legati all’elettricità e all’accessibilità dei servizi igienici.

La giornata si concludeva verso le ore 23, quando volontari e lavoratori o attendevano i taxi o si incamminavano a piedi verso la città lucente, spensierata, giovanile e indifferente alla sofferenza di tante persone.

Di Anteo Ciavatti

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