Solo infermieri





Roberto ha 33 anni ed è un infermiere che attualmente lavora presso gli Spedali Civili di Brescia. Prima di lanciarsi nel mondo del lavoro ha trascorso tre mesi della sua vita in Ecuador, prestando servizio come volontario presso l’Ospedale Claudio Benati a Zumbahua; al suo ritorno ha lavorato presso alcune Rsa bresciane e in due ospedali privati accreditati, tra Veneto e Lombardia. Su Facebook ha lanciato una proposta indirizzata a tutti i colleghi che operano nel settore sanitario, chiedendo di unirsi alla sua scelta: donare il bonus di 100€ a Onlus o progetti socialmente utili.

Perché hai deciso di intraprendere questa campagna di restituzione del bonus?

Il 17 marzo 2020 è stato pubblicato il Decreto Legge 18/2020 nel quale veniva istituito il cosiddetto bonus di 100€ per i lavoratori che durante il lockdown avrebbero continuato a lavorare.

Nonostante abbia apprezzato lo sforzo del Governo nell’affrontare l’emergenza ho fin da subito criticato la scelta di premiare con un bonus di 100€ tutti i lavoratori e in particolare quelli del comparto sanitario. Dopo anni in cui le nostre professionalità sono state ignorate dalle istituzioni locali e nazionali ricordarsi di noi solo nello stato d’emergenza mi sembra una scelta ipocrita.
Ho deciso di sostenere il progetto “SOStieni Brescia, dona per la tua città, aiuta le famiglie”, come ringraziamento alla città che mi ha accolto e che mi permette di lavorare in uno dei migliori ospedali del nord Italia.

Le donazioni non dovrebbero essere pubblicizzate ma questa volta ho ritenuto giusto scriverlo per sensibilizzare i miei colleghi e spingerli a fare lo stesso. In questo momento ci sono migliaia di cittadini privi di reddito e mi sembra doveroso aiutarli.

Le persone che lavorano nella sanità sono state definite come “eroi”, “angeli”, “soldati in prima linea”, come consideri questi epiteti?

Non ci consideriamo né eroi né angeli ma professionisti consci che il nostro è un lavoro non una missione.


Sono finiti i tempi delle suore nelle corsie ospedaliere, dal 2001 l’infermiere per poter indossare la divisa deve conseguire la laurea triennale, superare l’esame di abilitazione, iscriversi all’Ordine delle Professioni Infermieristiche, essere in regola con ECM (Educazione Continua in Medicina, cioè corsi di aggiornamento quasi sempre a pagamento), stipulare un’assicurazione professionale.

In termini economici quanto vale il nostro lavoro? In Italia ci sono vari tipi di contratto: l’infermiere delle Rsa guadagna 1200/1300€, mentre in un ospedale pubblico o privato può arrivare a 1500/1600€ (includendo lavoro notturno/festivo e indennità specifiche) quindi al massimo 25’000€ lordi annui contro i 35’000€ di Francia e Spagna o 41’000€ della Germania fino a 83’000€ del Lussemburgo.
Potremmo scrivere pagine e pagine sulle problematiche degli infermieri: anni di blocchi delle assunzioni, rapporto infermieri/pazienti tra i più bassi in Europa, denunce e aggressioni contro infermieri e medici.

Abbiamo sempre sentito parlare della sanità lombarda come eccellenza italiana ma quali sono state le criticità o gli errori più gravi?

Ci sono criticità di fondo che ereditiamo dagli ultimi vent’anni di gestione politica e amministrativa.
Dal mio punto di vista bisognerebbe rivedere la distribuzione dei fondi destinati alla sanità, perché la sanità privata si è concentrata solo sulle specialità remunerative come ortopedia/cardiochirurgia/neurochirurgia che hanno DRG (rimborsi regionali) molto alti, lasciando al pubblico il “peso” di quelle specialità che, dal loro punto di vista, sono molto meno remunerative.

La salute ritengo sia un diritto di tutti i cittadini e non deve esser un motivo di guadagno da parte di avidi imprenditori, si ritorni ad una sanità pubblica e se il privato vorrà fare profitti sarà libero di farlo ma non con i soldi dello Stato.

Vorrei invece farti una domanda più personale, dopo questi due mesi, come stai psicologicamente?

Non è stato per niente facile! Sono un infermiere è vero, ma nella pratica sono uno strumentista di sala operatoria.

All’inizio dell’emergenza, quando le terapie intensive si sono saturate, noi infermieri strumentisti del blocco cardiotoracico ci siamo resi disponibili ad aiutare per allestire una nuova terapia intensiva che avrebbe aumentato la capacità ricettiva della rianimazione.
Sempre nella prima fase fornivamo supporto ai colleghi specializzati in terapia intensiva i quali, coperti dai piedi fino ai capelli, correvano da un letto all’altro, con gli allarmi dei monitor che suonavo a ritmo incessante. Ogni tanto entravo anche in zona rossa per permettere al personale stremato di svestirsi e riposarsi per un’ora.
La prima volta dentro la zona rossa è stata scioccante: colleghi irriconoscibili a causa del vestiario protettivo, malati sedati e attaccati ai respiratori, monitor che suonavano continuamente, l’aria che mancava, passata mezz’ora scoppiava l’emicrania dovuta all’ipercapnia cioè all’aumento di CO2 nel sangue.

Dopo un paio di settimane, sono stato assegnato ad un’altra rianimazione ed entravo a fare parte dell’organico in modo attivo. Durante il mio turno mi venivano assegnati tre pazienti.

Vorrei ringraziare i colleghi della terapia intensiva Covid3 che mi hanno aiutato e supportato durante i turni, non lasciandomi mai solo.

Il lavoro diventava sempre più difficile a livello mentale; dopo circa un mese ho passato notti insonni e alcune mattine mi svegliavo con tachicardia e ansia. Fortunatamente questo stress è arrivato quando la curva dei ricoverati in T.I. era in discesa e quindi lentamente stavamo riducendo i posti occupati. Il 24 aprile, ho ricevuto la chiamata dal coordinatore che mi annunciava la chiusura della nostra terapia intensiva Covid-19.

L’importante è capire fino in fondo che se ci sono persone che hanno bisogno di essere curate questo vada fatto

Gino Strada e Teresa Sarti

Emergency

Di Luca Speranzini

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