Aziende più potenti dei singoli Stati, sono oggi gli attuali governatori del pianeta. Grazie alla dittatura dei big data sono aumentate le disuguaglianze economico-sociali, le violazioni dei diritti umani e ci sono seri rischi per la tenuta dei sistemi democratici. Mentre tutto il mondo soffre a causa della pandemia, i giganti della Silicon Valley ne escono rinvigoriti, arricchiti, rinforzati, aumentando ancor di più la loro potenza.

La crisi causata dal covid-19 ha avuto un impatto più o meno grave su tutta la popolazione mondiale. Ognuno di noi è stato coinvolto dagli effetti globali della pandemia. C’è chi purtroppo ha perso un familiare o un amico, chi è stato licenziato o mandato in cassa integrazione, chi è stato costretto a interrompere un viaggio, chi si è ritrovato a passare il periodo di quarantena in un luogo diverso dal suo domicilio abituale. Nei giorni della quarantena siamo stati tutti assaliti da un senso di incertezza e panico, nel tentativo di capire cosa stesse succedendo fuori dalle nostre case.
Uno degli aspetti fondamentali che ha caratterizzato questo periodo è stato sicuramente il passaggio alla digitalizzazione totale, ovvero masse di persone che si sono ritrovate, da un giorno all’altro, a dover compiere tutte le attività quotidiane, dalle piú banali alle piú importanti, utilizzando piattaforme digitali.
Abbiamo assistito alla digitalizzazione del lavoro, con la creazione della figura del telelavoratore (smart worker); della scuola, con l’introduzione delle lezioni on-line tramite l’utilizzo della piattaforma Zoom; sono stati introdotti servizi digitali di consegna di cibo e spesa a domicilio.
Tutto sommato il passaggio al digitale non è stato neanche troppo difficile, tenendo in considerazione il fatto che le varie piattaforme sono di facile utilizzo, molto intuitive e soprattutto sono gratuite!
Ma siamo davvero sicuri che le piattaforme come Facebook, Whatsapp, Google, Zoom, siano gratuite?
La risposta ce la fornisce il professor Ugo Mattei, grande giurista e studioso della rete, il quale sostiene che “quando un servizio ti è offerto gratuitamente, sei tu stesso il prodotto”.
I giganti della Silicon Valley infatti, generano profitti multimilionari proprio grazie ai nostri dati personali. Per ogni minuto di navigazione in rete, di utilizzo di un’applicazione o di esercizio di qualsiasi attività on-line, ognuno di noi genera un numero indefinito di dati. Tali dati vengono poi ceduti, gratuitamente e con il “nostro consenso”, alle piattaforme, che provvedono ad immagazzinarli ed elaborarli tramite degli algoritmi. Per ogni utente della rete viene creato un profilo, riassuntivo di tutte le informazioni personali relative a ogni singolo aspetto della sua vita: spostamenti geografici, gusti, idee politiche, necessità,e così via. In questo modo, ad esempio, Amazon, non appena entriamo nella rete, è già a conoscenza del prodotto che stiamo cercando, e con continui e fastidiosi annunci pubblicitari, continuerà a proporcelo finché non cadremo nella sua trappola, acquistando finalmente il prodotto. Sono attività ai limiti della truffa. Ma figuriamoci se Amazon bada alle disposizioni del codice penale o del codice del consumo, ormai anacronistico e senza significato.
Ma i big data non sono utilizzati solo per motivi commerciali. Vengono regolarmente usati anche per influenzare le campagne elettorali e per veicolare i risultati delle elezioni politiche. È quanto accaduto per l’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti nel 2016, con lo scandalo della società Cambridge Analytica, ed è stata anche la strategia utilizzata dalla Lega in Italia nel 2018.
Oltre a rappresentare un potenziale pericolo per gli equilibri democratici, un altro effetto collaterale della digitalizzazione totale, di non minore gravità, è proprio l’accrescimento smisurato e senza limiti dei profitti e dei patrimoni delle società che mettono a disposizione le piattaforme digitali.
Grazie alla pandemia, Zoom ha più che raddoppiato la sua capitalizzazione sul mercato, passando da 19 miliardi di dollari ad Aprile 2019, agli attuali 44 miliardi di dollari; Netflix ha chiuso il primo trimestre con un aumento del fatturato del 27% a 5,7 miliardi di dollari rispetto ai primi tre mesi del 2019; Amazon, il colosso di Jeff Bezos, che tra pochi anni sarà la prima persona nella storia dell’umanità ad avere un patrimonio calcolato in trilioni (mille miliardi di miliardi) di euro, ha registrato un boom di vendite nel primo trimestre dell’anno (+26%), chiudendo i primi tre mesi dell’anno con ricavi per 75,5 miliardi di dollari.
Sono dei numeri che fanno rabbrividire, soprattutto se teniamo in considerazione che i colossi del Big data e del Big tech, grazie a dei complessi meccanismi societari, riescono a non pagare le tasse nei paesi in cui ottengono i loro profitti più alti. Secondo una recente indagine svolta dalla Fair Tax Mark, i big six della Silicon Valley, ovvero Amazon, Facebook, Google, Netflix, Apple, Microsoft, hanno eluso il pagamento di oltre 100 miliardi di euro di tasse, negli ultimi nove anni.
A denunciare la situazione di evidente pericolo per i nostri diritti, causata dalla digitalizzazione totale, è stata anche Amnesty International. Nel suo rapporto del novembre 2019 segnala che “l’intensa sorveglianza di Facebook e Google su miliardi di persone costituisce una minaccia di carattere sistemico per i diritti umani” ed evidenzia come sia necessario l’intervento del parlamento.
Servono leggi che garantiscano che aziende come Google e Facebook non possano rendere l’accesso ai loro servizi vincolato al “consenso” degli individui alla raccolta, elaborazione o condivisione dei loro dati personali per ragioni di marketing o pubblicità. Siamo persone, non siamo prodotti (forse).
È necessario l’intervento del governo perché è ormai palese che tali aziende offrono servizi di pubblica utilità, mediante i quali tutti noi esercitiamo i nostri diritti e le nostre libertà. Stiamo parlando di diritti e libertà fondamentali garantiti dalla Carta Costituzionale e da trattati internazionali, il cui godimento non può di certo essere vincolato alle logiche di profitto di un’azienda multimilionaria.
In tal senso, un debole tentativo di regolamentazione fu messo in atto nel 2015, dalla Commissione per i Diritti e i Doveri in Internet, istituita presso la Camera dei Deputati del parlamento italiano, che aveva concluso i suoi lavori giungendo all’approvazione della Dichiarazione dei Diritti in internet.
Ma purtroppo si è trattata di una mera dichiarazione di intenti, a cui non ha fatto seguito nessun provvedimento giuridicamente vincolante, e di cui i successivi governi eletti si sono completamente dimenticati.
Da parte nostra, come comuni cittadini e utenti del web, non possiamo più aspettare. Dobbiamo iniziare a sviluppare una idea di cittadinanza digitale e a pretendere il rispetto dei nostri diritti digitali, con la consapevolezza che la rete è il luogo in cui oggi esprimiamo in maniera piú consistente la nostra personalità. Dobbiamo pretendere una regolamentazione della rete, dettagliata ed efficace, altrimenti saremo noi stessi a pagare il prezzo piú alto in termini di esercizio di diritti e libertà fondamentali.
Di Armando Oricchio